Dite pure quello che volete, giustificatevi pure, calciatori e tecnico, perché c’è sempre una giustificazione pronta, ma la sconfitta di Monterotondo brucia, e non poco. Già un pareggio sarebbe stato un risultato risicato e non gradito, figuriamoci poi una sconfitta arrivata proprio allo scadere dei minuti di recupero.
Il dibattito sul momento critico attraversato da qualche tempo tiene banco in città. Nessuno ha dimenticato quello che la squadra azzurro-stellata ha fatto fino a qualche settimana fa, entusiasmando una piazza pronta per grossi traguardi. Logico che si potesse, a un certo punto del campionato, pensare in grande. Lo avrebbero fatto in tutte le piazze, figuratevi quella di Pagani che ha fame di grande calcio. Adesso, dopo l’ultima cocente delusione patita a Monterotondo, ci si interroga: che cosa non va? Perché il corso ottimale della squadra si è fermato?
Tutto potrebbe essere causato da una condizione fisica non al top, oppure, in alternativa, si dovrebbe tirare in gioco la psicologia o l’assoluta mancanza di materia prima. Però, in quest’ultimo caso, non dovremmo nemmeno mai avere spezzoni consistenti di buon gioco. O no? Nella vita, purtroppo, o si è uomini o caporali. Non si possono accettare mezze misure. Allora, fermo restando che bisognerebbe una volta per sempre capire che cosa impedisce alla squadra di essere continua nel rendimento (cosa non da poco), siamo ancora in grado di puntare a traguardi ambiziosi?
Premesso che non devo essere l’avvocato difensore di nessuno, credo sia troppo comodo e semplicistico ricondurre tutto al solo allenatore. Gli allenatori si scelgono e si valutano prima dell’ingaggio. Un vecchio uomo di calcio, di quelli che avevano navigato a pieno regime nel variegato mondo del pallone, quando parlavamo degli allenatori – messi in discussione dopo risultati non proprio esaltanti – se ne usciva con una frase che non ho mai dimenticato. «Gli allenatori sono bravi solo quando vincono» – e lo diceva con piena convinzione, senza condizionamenti di sorta, anche se si trattava di parlare di veri mostri sacri del calcio di una volta.
Cosa voglio dire? Semplicemente che l’allenatore della Paganese, a mio parere, dovrebbe svestire i panni di chi osserva da lontano una partita ed entrare nel merito della questione che più preoccupa: quella della tenuta complessiva della squadra che non riesce mai a essere continua nel suo cammino. Sabato scorso – dopo un primo tempo giocato con il piglio della squadra che sa bene quello che vuole, con un presidio continuo nella zona centrale del campo, che di solito determina l’andamento di una partita, con elementi pronti e addestrati alla pratica del pressing continuo, adesso identificato come intensità di gioco – c’è stato un cedimento inatteso proprio nel settore centrale del campo che aveva entusiasmato nella prima parte della gara.
Sapete qual è il metro di valutazione dell’intensità di gioco? La conquista delle seconde palle, quelle dei passaggi sbagliati o errati, quelle degli agganci non riusciti con palloni che schizzano lontano dal controllo diretto e che devono essere preda di chi ha più fiato da vendere. Ecco, quando si riesce ad arrivare primi per agganciare queste cosiddette seconde palle, il semaforo dà via libera: significa che la benzina c’è ancora e che la squadra è viva e vegeta.
La Paganese attuale lo è? La risposta la darà il campo, giudice inappellabile come sempre.
(foto Paganese calcio)
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